giovedì 14 ottobre 2010

La stagnazione dell'economia giapponese

La crisi economica iniziata nel 2007 non è affatto finita. Le recenti tensioni valutarie, la fibrillazione delle banche centrali, le speculazioni sui cereali e sull’oro non sono altro che il tentativo affannato di uscirne senza le ossa rotte e, possibilmente, a spese di qualcun altro. La cosa più sorprendente, però, è la cocciuta insistenza da parte delle autorità politico-monetarie nell’applicare rimedi che si stanno rivelando inefficaci. Errare è umano, perseverare è diabolico.
Il caso che desta maggiore curiosità è quello del Giappone e dell’applicazione acritica di politiche di stampo monetarista. Ora, secondo tale approccio, in caso di recessione è necessario abbassare i tassi di interesse per favorire gli investimenti, senza pensare troppo alle conseguenze sul meccanismo dei prezzi e all’aspetto qualitativo degli investimenti realizzati. D’altro canto, in caso di inflazione, il rimedio proposto è quello dell’innalzamento dei tassi per “raffreddare” l’economia. Ora, l’economia giapponese vive in una fase di stagnazione da circa vent’anni e dallo stesso tempo viene applicato il medesimo rimedio. Cosa è necessario per convincere i timonieri giapponesi della fallacia della teoria adottata? Un abbassamento costante dei tassi (ormai nulli) non fa altro che distorcere la struttura dei prezzi e generare (forse) investimenti non coerenti con il sistema delle prefenze temporali, una fase di crescita artificiosa e destinata a precipitare nella crisi.

Dall’altra parte abbiamo l’Unione Europea e gli Stati Uniti che, pur attagnagliati da un deficit lancinante, pensano ancora ad iniezioni di spesa pubblica per rilanciare la domanda aggregata. Che appare tutt’altro che rilanciata, visto che anche gli ultimi dati ci riportano nuovi aumenti della disoccupazione negli Usa. Anche in questo caso si insiste su politiche che dimostrano la loro inefficacia, quando sarebbe meglio lasciar correre la deflazione, per riallineare i prezzi al valore reale e alle preferenze temporali. In fondo, i prezzi in discesa non sono forse un sostegno alla domanda? Un sostegno che non necessita di ulteriori debiti.

L’impressione è che oggi Usa, Ue e Giappone preferiscano insistere con vecchi rimedi inefficaci perché… non ne conoscono altri. E aggiungono un insensato grido d’allarme sullo scontro valutario. Il bersaglio di questo attacco è la Cina. Cosa sta facendo il Celeste Impero? Compra debito pubblico americano, dando al popolo di McDonald le risorse monetarie per acquistare prodotti cinesi. A ben guardare si tratta dello stesso atteggiamento coloniale attuato dagli Stati Uniti nei confronti dell’Europa nel secondo dopoguerra: cos’era il Piano Marshall? Denaro infilato in tasca agli europei per comprare prodotti americani. E, ancora, euro, dollaro e yen desiderano indebolirsi per favorire il proprio export. Si vuole essere forti con monete deboli… A sostegno di tale insensatezza giunge il plauso degli imprenditori, che oggi non sono meno colpevoli dei governi. Invece che puntare sull’innovazione, sulla creatività, sul lavoro duro, sulla valorizzazione del capitale umano, invocano sussidi e protezioni statali. Su questo versante sono particolarmente attivi gli industrialotti del nostro Nord-Est, che hanno come unico fine quello di perpetuare la miseria di un sistema industriale fondato su imprenditori ricchi e imprese povere, ville nuove e macchinari vecchi. No, questo sistema non è di certo definibile capitalismo, neanche dai detrattori del libero mercato.

Cosa resta da fare? Assistere immobili all’avvicendarsi degli imperi? Forse l’unico gesto eroico oggi è abbandonare questo Occidente museale, parco dei divertimenti, culturali e non, dei nuovi ricchi. Portare semi laddove possano crescere i frutti. Lontano da qui, dove il terreno dello sviluppo è avvelenato dall’ignoranza economica dei banchieri centrali e i rari frutti sono depredati da Stati rapaci.

Carmelo Ferlito

«Rinascita», 14 ottobre 2010, p. 10

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